Venerdì 21 luglio: Modena – Milano – Madrid - Miami - Città del Guatemala –
Antigua
È giunto il giorno della
partenza. Sono emozionato, agitato ed ho anche un po’ di paura: è il mio primo
“grande” viaggio, e lo affronto con mille incognite. Si parte così,
all’avventura, con solo un biglietto aereo e lo zaino in spalla. Non conosco una
parola di spagnolo, ed anche questo mi inquieta. Per fortuna partiamo in due, io
e la Robbi. Lei invece di viaggi ne ha fatti parecchi e lo spagnolo lo conosce
molto bene. E questo mi conforta, anche se non del tutto. Ho anche un po’ paura
di come reagirò agli inevitabili momenti di crisi. Il viaggio è lungo, senza
possibilità di rifugio, e dovremo stare gomito a gomito tutto il tempo. Siamo
affiatati e ci conosciamo molto bene, ma cinque settimane di fila sempre assieme
sono un’altra cosa. Vedremo.
Arrivare a Madrid è stata una
passeggiata. Invece lo scalo a Miami è una sorpresa, visto che non era previsto
neanche. Tre ore confinati in una saletta che sembra una cella frigorifera: dopo
tante ore di viaggio, sembrano lunghissime. Ci appisoliamo un po’ sulle
poltroncine, ma non sono esattamente il massimo.
Finalmente ripartiamo verso
Città del Guatemala. In aereo conosciamo una coppia (di Milano?), anche loro
diretti lì. L’atterraggio mi preoccupa: ci sono lampi da tutte le parti. Spero
che non ci colpiscano, o almeno che la legge di Faraday sia vera, anche se non
ho voglia di scoprirlo giusto ora.
Mettiamo i piedi in terra sani
e salvi ed ho la tentazione di baciare il suolo. Invece annuso l’aria e non
capisco: di sicuro è piovuto da poco (cominciamo bene), ma oltre l’umido c’è un
odore che lì per lì scambio per il tipico odore che si può trovare sulle piste
degli aeroporti. Entriamo nell’aeroporto ed ho una stretta al cuore: sembra un
posto reduce da un bombardamento, sciatto, disordinato. Le poltrone della sala
d’attesa in realtà sono dei sedili di autobus in vera finta pelle consumata,
vecchi come mio nonno, strappati in più punti e ricuciti applicandoci sopra una
pezza di colore somigliante. Le pareti hanno conosciuto la vernice tanto di quel
tempo fa che ormai il colore originale non esiste più da almeno un paio di
generazioni, fuso com’è con la polvere, le macchie, i rattoppi nei muri ripresi
così come viene… Improvvisamente capisco cos’è l’odore che sento: è petrolio, o
almeno qualcosa di molto simile: lo usano per lavare i pavimenti, quando questo
succede. Il che non è poi così frequente. Se l’aeroporto è il biglietto da
visita di un Paese, dove diavolo siamo finiti?
Una mano mi scuote: è la Robbi
che mi trascina fuori quasi di peso e comincia a contrattare con un tassista per farci
portare ad Antigua, la vecchia capitale del Guatemala, distante una trentina di
chilometri. Non è facilissimo, anche perché da queste parti è un’ora tarda
(figurati, sono le dieci di sera…). Ci mettiamo d’accordo (i dollari fanno
miracoli) e montiamo in macchina. Oddio, macchina… Diciamo che una volta lo è
stata anche lei, ma ora il massimo cui potrebbe aspirare è un dignitoso
pensionamento per meriti di servizio. I sedili sono talmente sfondati che la mia
testa sbuca appena. La robbi invece è completamente fagocitata, e per riuscire a
parlare col tassista è costretta a tirarsi su come se stesse nelle sabbie
mobili.
Usciamo dalla città, che mi è
parsa una specie di Bronx, e per quel che riesco a vedere la strada costeggia
delle montagne. Arriviamo ad Antigua, e sganciando qualche dollaro
supplementare, convinciamo il tassista a portarci in giro per trovare da
dormire. Al quarto tentativo finalmente troviamo una camera, ad un prezzo
esagerato. Per un attimo mi illudo di andare in un posto con almeno 4 stelle, ma
mi ricredo subito: la camera è piccola, sembra lo sgabuzzino di una casa, il bagno non è altro che una tenda da tirare in fondo alla stanza, la
doccia un tubo che esce dal muro, l’armadio è fatto da 4 asce inchiodate fra
loro, il tavolo non è buono neanche da farci un pic-nic. Pensieri foschi mi
attraversano la mente, quando la stanchezza ha il sopravvento e Morfeo mi
avvolge fra le sue braccia.